domenica 27 luglio 2014

LIFE
Lo zen e l'arte di farsi i cazzi propri in chat

Facciamo il doveroso disclaimer di inizio post. In teoria non ce ne dovrebbe essere bisogno, in pratica sarà necessario.

QUESTO POST NON INTENDE MINIMAMENTE ATTACCARE IL GUSTO PERSONALE DEL LETTORE CHE, IN QUANTO PERSONA DOTATA DI PREFERENZE PRETTAMENTE INDIVIDUALI, È OVVIAMENTE ORIENTATO VERSO CARATTERISTICHE ESTETICHE E FISICHE CHE SONO DA RITENERSI INSINDACABILI. L'AUTORE CI TIENE A PRECISARE CHE IL CONTENUTO DI QUESTO POST SI RIFERISCE A UN FATTORE PURAMENTE FORMALE, CHE NULLA A CHE VEDERE CON IL CONTENUTO STESSO DI QUANTO RIPORTATO DALLE CONVERSAZIONI AVUTE CON I SUOI INTERLOCUTORI O DA QUANTO RECEPITO IN SEGUITO AD ANNI DI COSTANTE ESPLORAZIONE.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è di per sé una stronzata. Una di quelle cose che evidentemente, presa fuori contesto, sembrerebbe innocua e apparentemente inutile da sottolineare. Proprio come accadeva nel bellissimo incipit di Rose Madder di Stephen King, dove la malcapitata di turno, omonima protagonista del romanzo, dopo continui soprusi e violenze da parte del marito, perde completamente la testa quando una goccia di sangue le cola dal naso e contamina il candore del lenzuolo sul letto che stava riordinando in una mattinata qualsiasi. Un capillare rotto all'improvviso, come è capitato molte volte a ciascuno di noi, senza motivo. Eppure quella goccia di sangue rappresenta la goccia di troppo, quella che fa aprire gli occhi alla donna e la porta a ribellarsi.
La mia goccia di sangue è una frase apparentemente innocua, scritta anche (forse) con l'intento di strappare un sorriso a chi legge, su un profilo di una comunissima chat per incontri finalizzati essenzialmente al sesso:
Se avete la panza, non è colpa mia, mica so' venuto a casa vostra a ingozzarvi di lasagne con un imbuto
A questo punto è d'obbligo chiarire due punti:
1 - Colpa? Quale colpa? Se parliamo di colpa, inevitabilmente stiamo dando per scontato che un'azione da noi compiuta determini una "punizione", una "rinuncia" di cui dovremo privarci per esserci ingozzati la suddetta lasagna con un imbuto. Di grazia, quale sarebbe questa rinuncia? Non avere l'occasione e il privilegio di essere toccati da mani atletiche? Perdere l'occasione della vita di sdraiarci accanto al portatore di orgasmi e gioie per eccellenza?
2 - Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Se però domanda non sussiste, l'informazione, dalla forma indubbiamente denigratoria, è superflua. Voglio dire, anche sti cazzi, eh? Conoscendo il soggetto di persona, anche io ho pensato subito "Se sei deficiente, non è colpa mia, mica so' venuto in classe tua mentre il professore spiegava e ti ho portato di peso in palestra a fare 25 serie di addominali". Ho semplicemente evitato di dirlo, perché non mi è stato chiesto.

Il punto è questo: che cos'è che ci porta a esprimere un parere discriminatorio quando non ci viene minimamente chiesto? Perché, in nome di una preferenza assolutamente legittima, frasi come "Preferisco incontrare gente atletica" o "Non sono attratto da tipologie androgine" lasciano il posto a "Alla larga cessi, grassoni e checche"?
È perché la CREATINA ha preso talmente il sopravvento nel cervello da perdere una A e trasformarsi in CRETINA?
È il "non chiesto" che a me manda letteralmente fuori di testa.
Peccato per la pancia, perché hai un viso bellissimo
Peccato per chi? Per me? E chi mi garantisce che, se mi chiudo in palestra 5 ore al giorno per 10 mesi, mi aspettano sensazionali ore di fuoco con te? No, perché se poi lo faccio, vengo a battere cassa, e so' cazzi amari, eh?
Non ho minimamente intenzione di dilungarmi su quanto una foto possa fuorviare o formulare in noi un giudizio solamente apparente di quello che può aspettarci dall'altra parte dello schermo, sono il primo a farlo. La foto (se reale, poi, e recente) è un fattore di selezione naturale, dà un'indicazione approssimativa di ciò che potrebbe attenderci. E potrebbe anche dare un suggerimento sbagliato, ma tant'è: la chat è il luogo meno indicato per dare una chance a chiunque solo perché potremmo rimanere sorpresi da ciò che potremmo ritrovarci di fronte.
Ho però intenzione di dilungarmi sulla scelta delle parole. Quello sì.
Sull'arroganza.
Sulla mancanza di rispetto.
Sulla superficialità di un giudizio rivolto a una persona di cui non sappiamo nulla, non conosciamo il suo trascorso, non sappiamo quali difficoltà potrebbe aver dovuto affrontare per arrivare dove è arrivata e nelle condizioni in cui ci è arrivata. Selezionare è una delle azioni più comuni al mondo. Lo facciamo quando andiamo a fare la spesa, scegliendo la mela che ci SEMBRA più sana, più bella e più profumata (il che non esclude che possa essere marcia una volta sbucciata), lo facciamo quando vogliamo comprarci un paio di pantaloni, puntando al modello che ci risalta il culo o ci sfina le gambe (fermo restando che, quando lo togliamo, i trucchi sono finiti), però guarda caso quando dobbiamo scegliere un partner per la vita la selezione avviene in modo naturale e involontario: non scegliamo mai di chi innamorarci. Non ci sediamo alla scrivania pensando "OK, ora mi concentro e mi innamoro di lui/lei". A volte ci stupiamo, addirittura, della persona che ci ritroviamo accanto, perché molte volte quella persona non ha nulla a che vedere con le nostre preferenze. È successo e basta, e per quanto mi riguarda la sorpresa è ancora più eccezionale della conferma di aver trovato accanto a noi la materializzazione di ogni nostra più piccola fantasia.
Selezioniamo, perché il mercato offre di tutto e di più.
Continuiamo a farlo, perché è giusto puntare a ciò che noi crediamo meritevole e degno di starci accanto.
Però facciamolo con educazione, con rispetto, con buone maniere, porca puttana!
E ricordiamo sempre che, in un'interazione, un parere non richiesto non è un parere. È solo una mancata occasione di incamerare più ossigeno e fare più bella figura.


E comunque sappiate che, nel caso remoto in cui dovessi davvero decidere di chiudermi in palestra 5 ore al giorno per 10 mesi, il mio cervello non subirà alcuna modifica, e mi ricorderò di ognuno di voi...

mercoledì 4 giugno 2014

CINEMA
Maleficent


SPOILER ALERT: SE AVETE INTENZIONE DI VEDERE QUESTO FILM, PASSATE OLTRE


Malefica ha tutto il sacrosanto diritto di chiamarsi così. Io fossi stato in lei, più che Malefica, mi sarei chiamato IncazzataNera. Voglio dire, sei una giovane e incantevole fata che decide di concedere una tregua all'eterna lotta tra il tuo regno e quello degli uomini dopo aver conosciuto un essere umano che ti dichiara il vero Amore, ma scopre di essere più attratto dalla sete di ambizione e di potere che da te, ti tradisce di fronte alla possibilità di diventare futuro re, ti tronca le ali e le porta nel Regno degli Uomini dichiarando di averti sconfitta e di meritare la successione al trono. Come minimo, ti devi chiamare Malefica. Ma da questo momento in poi. Per quale motivo ti chiamassi Malefica anche prima, rimane un mistero.
Proseguiamo.
La fata furibonda diventa una temibile strega, trasforma il suo regno incantato nel regno delle tenebre, irrompe al battesimo della figlia di Re Stefano e lancia una maledizione su di lei: la giovane crescerà in grazia e gloria, ma il giorno del suo sedicesimo compleanno si pungerà il dito sul fuso di un arcolaio e morirà. O meglio, cadrà in un sonno eterno, da cui potrà risvegliarla solo il bacio del Vero Amore (e per la signora, furibonda nei confronti di Eros, la pupa è spacciata).
Re Stefano, che sembra stupido, ma stupido non è, fa bruciare tutti gli arcolai del regno, nasconde la piccola nel bosco per sedici anni (insieme a tre fate rincoglionite) e impazzisce per il rimorso nell'attesa che si compia la maledizione. IncazzataNera ci mette un nanosecondo a sgamare il rifugio di Aurora e la spia, rancorosa, per tutta la sua giovane esistenza. E cosa accade, signore e signori?
Ci fa amicizia.
Il suo duro cuore di pietra si scioglie, si affeziona alla simpaticissima scassaminchia dai riccioli d'oro e arriva persino a PENTIRSI e ritirare l'incantesimo. Ma la signora ha fatto la smargiassa, sedici anni prima, affermando che nessun potere sarebbe stato in grado di spezzare la maledizione. Rassegnata, vede la sua previsione compiersi senza poter fare nulla per impedirlo. In un ultimo gesto disperato, addormenta un giovane principe che aveva scambiato due battute con Aurora il giorno prima, lo porta nel castello e lo fa risvegliare sul letto della principessa addormentata. È il principe stesso a guardare basito le tre rincoglionite convinte che il Vero Amore possa essere lui ("L'ho vista solo una volta, è carina, per carità, ma perché dovrei baciarla?"). E ovviamente (e logicamente) l'incantesimo non funziona. A questo punto, IncazzataNera si avvicina alla biondina, le chiede scusa per il male procuratole, la bacia sulla fronte e... l'incantesimo si spezza, lancia Re Stefano da una torre dopo un agguerrito combattimento (aiutato dalla stessa Aurora, che le ridà indietro le ali conservate dal padre in una teca), recupera il Principe, celebra il matrimonio tra i due giovani, riacquista la serenità e sancisce la pace definitiva tra Regno degli uomini e Regno delle fate e chi s'è visto s'è visto.

L'idea di cambiare le carte in tavola offre qualche spunto interessante: in primis, la dissacrazione definitiva dello stramaledetto Principe Azzurro, nient'altro che un fregnaccione con un improbabile taglio di capelli che ha bisogno della pappa servita per svolgere il suo dovere di maschio alpha. L'Amore, quello vero, è Femmina, si chiama Angelina Jolie e ha le labbra più rinvigorenti del mondo (Lesbo, can you hear me?)
Ci vuole una buone dose di coraggio per stravolgere un Classico dei Classici, ribaltare il ruolo della principessa risvegliata dal suo cavaliere, uccidere il Re e lanciare sul carro dei vincitori la perfidia per eccellenza tra tutti i capolavori di Walt Disney. L'impressione, però, è quella di aver sentito l'esigenza di sfruttare la Jolie per tutta la durata del film (e come dare torto agli sceneggiatori?), facendola necessariamente interagire con l'insopportabile principessa e, di conseguenza, donandole l'unico sentimento che a Malefica non appartiene: il rimorso. Una volta inserito questo virus nel sistema, l'evoluzione che ne scaturisce sembra appartenere più a un quarto capitolo del Signore degli anelli che a una fiaba immortale.
Un film girato con, su e per Angelina, Malefica perfetta: bellissima, bravissima e forse mai così umana.
Va bene, facciamo finta di crederci. Non chiamiamolo però un punto di vista alternativo de La bella addormentata nel bosco, dato che nel film, di addormentato, c'è davvero solo il Principe Azzurro.

lunedì 6 gennaio 2014

CINEMA
Una ragazza piuttosto complicata

Titolo originale Una ragazza piuttosto complicata
Paese di produzione Italia
Anno 1968
Durata 100 min
Regia Damiano Damiani
Sceneggiatura Damiano Damiani, Alberto Silvestri, Franco Verucci
Fotografia Roberto Gerardi
Montaggio Antonietta Zita
Musiche Fabio Fabor
Scenografia Damiano Damiani, Umberto Turco
Costumi Mario Giorsi
Cast Gigi Proietti, María Luisa Bavastro, Guglielmo Bogliani, Florinda Bolkan, Luigi Casellato, Luciano Catenacci, María Cuadra, Franco Giornelli, Sergio Graziani, Gabriella Grimaldi, Gaetano Imbró, Gino Lavagetto, Franco Leo, Roberto Rigamonti, Nello Riviè, Margherita Simonini, Jean Sorel, Catherine Spaak

Se non portasse la firma di Damiano Damiani, Una ragazza piuttosto complicata potrebbe quasi sembrare un giallo erotico in puro stile lenziano, andandosi ad aggiungere al trittico del registra toscano composto da Orgasmo, Così dolce... così perversa e Paranoia (tutti interpretati da Carroll Baker e l'ultimo, guarda caso, proprio da Jean Sorel). Nella pellicola del 1968, il protagonista assiste per caso a una telefonata tra due lesbiche (proprio come, qualche anno dopo, Anthony Steffen ascolterà una conversazione misteriosa che darà il via alle indagini per scoprire il colpevole nel bizzarro Sette scialli di seta gialla). Incuriosito da questa situazione, decide di conoscere una delle due ragazze e di diventarne l'amante. Il giovane non ha però fatto i conti con il compagno di lei, un insolito Gigi Proietti, e con l'altra donna, una Florinda Bolkan splendida come sempre.
Girato con mano piuttosto esperta, il film si avvale di un cast di nomi noti, a partire dalla protagonista, una Catherine Spaak letteralmente miracolata dal cinema italiano (basti pensare a titoli quali Il sorpasso, L'armata Brancaleone, Il gatto a nove code e Febbre di cavallo) e gioca le sue carte puntando tutto sull'attrazione morbosa, tipica delle pellicole lenziane sopra citate, tra i tre personaggi principali, tra i quali spicca l'ambigua Bolkan in un ritratto femminile pregno di austerità e mistero. A differenza dei precedenti gialli a sfondo erotico, Una ragazza piuttosto complicata soffre però di una mancanza vera e propria di ritmo, a cui sopperisce tuttavia con un'ambientazione tipicamente pop in piena rivoluzione sessuale e con un finale inaspettato dove, ancora una volta, le interpretazioni lasciano ampio spazio all'immaginazione. Gigi Proietti sembra spaesato in un ruolo in cui non siamo abituati a vederlo neppure noi, Jean Sorel svolge come al solito il suo lavoro senza lode né infamia e Catherine Spaak risulta, dispiace dirlo, costantemente monoespressiva. Interessante, invece, il montaggio di Antonietta Zita, in particolare nella sequenza della telefonata, dove traduce in immagini psichedeliche la conversazione tra le due donne ascoltata (e quindi immaginata) dal protagonista e riportata qui sotto.
Merita sicuramente una visione.

giovedì 2 gennaio 2014

CINEMA
Martyrs

Titolo originale Martyrs
Paese di produzione Francia, Canada
Anno 2008
Durata 97 min
Regia Pascal Laugier
Sceneggiatura Pascal Laugier
Fotografia Stéphane Martin, Nathalie Moliavko-Visotzky
Montaggio Sébastien Prangère
Musiche Seppuku Paradigm
Scenografia Yves Fontigny, Joseph Gagné, Maurice Roy, Asuka Sugiyama
Costumi Danièle Brodeur
Cast Morjana Alaoui, Mylène Jampanoï, Catherine Bégin, Robert Toupin, Patricia Tulasne, Juliette Gosselin, Xavier Dolan-Tadros, Isabelle Chasse

Impossibile, a parere del sottoscritto, catalogare Martyrs come horror, nonostante rappresenti alcune tra le sequenze più violente e raccapriccianti mai apparse sul grande schermo. Men che mai può essere definito semplicemente un torture porn, termine coniato dal critico David Edelstein in riferimento a Hostel di Eli Roth con il quale vengono etichettati film in cui sono presenti quattro elementi caratteristici, ovvero mutilazioni, nudità, sadismo e tortura e che differiscono dagli splatter classici per il bilancio di produzione relativamente basso e una distribuzione cinematografica limitata se comparata al genere nativo (fonte: Wikipedia).
Martyrs rientra a pieno titolo nel cosiddetto Nuovo estremismo francese, locuzione creata dal critico James Quandt in riferimento a una serie di pellicole estreme dirette da registi francesi all'inizio degli anni 2000. Non sono dunque solamente gli horror come Alta tensione, Frontier(s) e À l'interieur a rientrare in questa catalogazione, ma anche film come Baise-moi, lo scioccante Irréversible e il porno a tutti gli effetti Intimacy: storie, dunque, dove le immagini forti la fanno da padrone, a volte coadiuvate da una trama che ne giustifica in pieno la potenza, altre volte totalmente gratuite. Il film in questione è effettivamente in bilico tra i due universi: se apparentemente la crudezza delle scene rappresentate sullo schermo risulti a tratti insostenibile e ingiustificata, d'altro canto, man mano che la storia prende forma, si dimostrano sempre più funzionali all'orrore a cui stiamo assistendo. La trama non è semplice da riassumere, in quanto densa di avvenimenti e colpi di scena che ribaltano completamente la situazione e gli esiti della vicenda. In breve, assistiamo a un antefatto in cui una bambina orrendamente torturata riesce a fuggire dalla tana dei suoi aguzzini, per poi ritrovarla 15 anni dopo armata di fucile in una villa immersa nella campagna, intenzionata a vendicarsi insieme a una sua amica, Anna, che finirà tuttavia sotto le grinfie di un gruppo di persone dalle intenzioni decisamente più perverse e contorte rispetto ai "principianti" di 15 anni prima...
Laugier non lesina nulla agli spettatori: qualunque forma di violenza (esclusa quella sessuale, neppure minimamente accennata) è graficamente rappresentata in ogni minimo particolare (impressionanti a tal proposito gli effetti speciali a cura di Carmelle Beaudoin e Jacques Godbout). Ciononostante, la maestria del regista e il disgusto suscitato dal tema del film riescono a rendere intollerabili anche le sequenze in cui viene dato maggior spazio all'immaginazione: esemplare a tal proposito la scena in cui, nell'ambito della carrellata di orrori a cui viene sottoposta la protagonista, un energumeno ripreso di spalle riempie di pugni e calci la giovane ragazza, quasi completamente coperta dalla figura del suo aguzzino.
Il finale è completamente spiazzante, per quanto, forse, possa suscitare una sorta di senso di giustizia negli osservatori dopo aver assistito a un tripudio di violenze e orrori per quasi 90 minuti. Il cast è di livello eccellente, sotto tutti i punti di vista. Merita sicuramente una visione, ma solo ed esclusivamente per stomaci più che forti.
P.S.: nei credits i ringraziamenti vanno a Dario Argento...

mercoledì 1 gennaio 2014

CINEMA
Metempsyco

Titolo originale Metempsyco
Paese di produzione Italia
Anno 1963
Durata 90 min
Regia Antonio Boccacci
Sceneggiatura Antonio Boccacci, Giovanni Simonelli
Fotografia William Grace
Montaggio Jean-Pierre Grenet
Musiche Armando Sciascia
Scenografia Danilo Zanetti
Costumi Casa Werther, Danilo Zanetti
Cast Annie Albert, Tony Maky, Elizabeth Queen, William Gray, Mark Marian, Bernard Bly, Emy Eco, Terry Thompson, Adriano Micantoni, Fred Pizzot, Flora Carosella, Corrado Sonni, Bernardo D'Angeli, Andrea Scotti, Maria Teresa Sonni

Nella prima metà degli anni '60 videro la luce diversi horror gotici italiani incentrati sul tema del doppio, con giovani e indifese eroine "moderne" che spesso reincarnavano un'antenata malefica e maledetta. È il caso, ad esempio, de La maschera del demonio (1960), Gli amanti d'oltretomba (1965) e I lunghi capelli della morte (1964), tutti e tre interpretati da una magnetica Barbara Steele, di recente tornata alla ribalta (almeno per gli appassionati del genere) nell'ottimo thriller di Gionata Zarantonello The butterfly Room - La stanza delle farfalle, che molto deve e molto rimanda al nostro cinema dei bei tempi andati. In mezzo a queste pellicole si insinua Metempsyco, di particolare rilevanza soprattutto in quanto attualmente non è disponibile in alcuna copia in lingua italiana. Anche qui la giovane protagonista è ossessionata dal suo doppio, una nobile aristocratica che la perseguita nei suoi incubi, e viene condotta dal padre in un villaggio nei dintorni del castello della contessa per esorcizzare le sue paure (!). Nei pressi di un lago dove si accingerà a immergersi, ovviamente completamente nuda, incontrerà un giornalista giunto sul posto per indagare sull'omicidio di due giovani ragazze, apparentemente per mano di una creatura mostruosa...
Uscito all'estero con il titolo Tomb of torture (La cripta delle torture), Memtempsyco sembra aver pesantemente ispirato quel Boia scarlatto che uscirà due anni dopo, ma la matrice è decisamente inferiore qualitativamente parlando (e non è che la pellicola di Massimo Pupillo fosse già di per sé un capolavoro). Trama fin troppo prevedibile, recitazione al minimo sindacale, siparietti semicomici inseriti senza il minimo riguardo, scenografie visibilmente in cartongesso (incredibile la leggerezza e la rapidità con cui vengono ribaltati i sepolcri contenenti i cadaveri e le anime delle creature maledette), tensione praticamente assente, anche per via del trucco del mostro, insufficiente anche per l'epoca, che ricorda un mix tra Il gobbo di Notre Dame di Delannoy del 1956 e I goonies di Spielberg (impossibile non pensare al leggendario Superslot), Metempsyco ha dalla sua parte l'interesse suscitato dal tasso di violenza e orrore sicuramente all'avanguardia per il periodo in cui è stato girato e per la totale irreperibilità della pellicola sul nostro territorio, dal momento che è disponibile esclusivamente in due edizioni in inglese (con il titolo sopracitato) e in francese (Le manoir maudit).

CINEMA
Amore e morte nel giardino degli dei

Titolo originale Amore e morte nel giardino degli dei
Paese di produzione Italia
Anno 1972
Durata 89 min
Regia Sauro Scavolini
Sceneggiatura Sauro Scavolini
Fotografia Romano Scavolini, Gabriele Bagnini
Montaggio Francesco Bertuccioli
Musiche Giancarlo Chiaramello
Scenografia Herta Scavolini
Costumi Herta Scavolini
Cast Erika Blanc, Orchidea De Santis, Peter Lee Lawrence, Rosario Borelli, Ezio Marano, Vittorio Duse, Bruno Boschetti, Carla Mancini

Il ritrovamento da parte di un professore di ornitologia di una serie di nastri su cui sono incise le sedute tra Azzurra e il suo psicanalista rappresenta il pretesto per raccontare una storia di amore, morte, incesto, tradimenti e menzogne. La donna, legata a un rapporto morboso al fratello Manfredi, ma sposata a Timothy, regge le redini di un misterioso triangolo erotico e fatale, in cui risulta difficile capire chi racconti la verità o chi sia veramente innocente. E intanto, nella villa dove abita il professore e dove sono stati rinvenuti i nastri magnetici continua ad aggirarsi una misteriosa presenza...
Stroncato praticamente da chiunque e ovunque, questa pellicola del 1972 presenta tuttavia diversi punti di forza. La lentezza narrativa, che poggia su un gioco di lunghe inquadrature in soggettiva e non e che tende a valorizzare i corpi nudi, quasi esanimi dei protagonisti, subisce la sua nemesi negli ultimi, vorticosi 15 minuti, dove tutte le regole del giallo (e del film stesso) vengono sovvertite in un crescendo di tensione, violenza e colpi di scena al cardiopalma. Di ottima fattura l'ambientazione rurale, in cui spicca la bellissima villa semiabbandonata, e una ricerca dei colori particolarmente vincente, con una predominanza delle tonalità del rosa, del viola e dell'arancione, quasi onnipresenti nei bellissimi costumi di Erika Blanc curati da Herta Schwarz Scavolini, responsabile sempre nel 1972 degli eleganti abiti di Evelyn Stewart nel sottovalutato Un bianco vestito per Marialè.
Se il cinema di genere è pregno di vicende in bilico tra ossessioni erotiche e delitti passionali, Amore e morte nel giardino degli dei, fin dal titolo, si conferma come uno dei principali rappresentanti del binomio eros e thanathos, con l'aggiunta di una particolare attenzione alle ripercussioni psicologiche e letali esercitate sui protagonisti. Erika Blanc, oltre che bellissima, offre una prova di recitazione superiore alla sua media. Un piccolo gioiello, ben lontano da alcuni capolavori dell'epoca, ma che sicuramente avrebbe meritato una maggiore attenzione.

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