domenica 10 settembre 2017

CINEMA
Anima persa


Incantevole perla nella ricca filmografia di Dino Risi e tratto da un romanzo di Giovanni Arpino, autore, tra l'altro, di oltre duecento racconti, Anima persa è un tutt'uno con la città di Venezia, che si presta per l'ennesima volta a ospitare storie di delitti, misteri, fantasmi (vale la pena citare A Venezia un dicembre rosso shocking, Chi l'ha vista morire? e La vittima designata). E Venezia vive di vita propria, mentre accompagna il giovane Tino per mano in un incubo inquietante che prende forma nel momento in cui si trasferisce in città per studiare all'Accademia delle Belle Arti e va ad abitare nella ricca e sfarzosa casa dello zio e della zia. Strani avvenimenti, tuttavia, iniziano a turbare la permanenza di Tino: rumori provenienti dal piano di sopra di cui nessuno vuole spiegare la ragione, un pianoforte che inizia a suonare di notte e, soprattutto, il comportamento degli zii, freddi e distanti tra loro. In un momento di confidenza, Elisa confessa al nipote che nella parte superiore della casa vive il fratello di suo zio, alienato mentale e vittima della più bieca disperazione: l'uomo infatti si sente responsabile della tragica morte di Beba, figlia di Elisa, morta all'età di dieci anni. Tino, sconvolto dalla notizia, cerca in tutti i modi di incontrare l'uomo senza riuscirci. E come se non bastasse, non v'è nessuna traccia neppure della tomba di Beba…

Avvalendosi di una coppia di mattatori di prim'ordine, quali Vittorio Gassman e Catherine Deneuve, Dino Risi dirige nel 1977 questa triste storia di una passione malata, ricca di picchi di inquietudine e malessere che culmineranno in un finale che, se pur non interamente inatteso ,si fa ricordare per l'intensa interpretazione dei due celebri protagonisti. Venezia è, ancora una volta, fredda, tetra, asettica, con un'entità tutta sua che contribuisce non poco all'inquietudine che pervade la pellicola nei suoi 98 minuti. Tonino Delli Colli la fotografa in ogni angolo, lungo i calli e negli immensi palazzi storici carichi di aneddoti e misteri. La sceneggiatura a 4 mani di Risi e il sempre ottimo Bernardino Zapponi regala al cinema italiano un'altra indimenticabile favola nera, raccontata da due protagonisti di eccellenza assoluta e realizzata nella piena tradizione degli incubi pseudo-soprannaturali che popolano numerosi il cinema di oggi. Pubblicato anche su Cinema Italiano Database

sabato 31 dicembre 2016

CINEMA
Una Magnum special per Tony Saitta


A pochissimi anni da quell’Anticristo riconosciuto come una delle pellicole cardine della sua cinematografia, se non addirittura il suo apice, Alberto De Martino firma, con lo pseudonimo Martin Herbert, Una Magnum special per Tony Saitta, giallo rocambolesco, ma tutto sommato godibile dopo il tentativo solo in minima parte riuscito di L’assassino… è al telefono del 1972, pellicola trascurabile da segnalare per la presenza di Telly Savalas, il tenente Kojak televisivo e, per gli amanti del cinema di genere, l’Antagonista per eccellenza nel baviano Lisa e il diavolo.

La trama ruota attorno a una serie di omicidi il cui unico legame sembra essere una preziosa collana, sottratta a una ricca signora di Toronto brutalmente assassinata. Le indagini sono nelle mani di Tony Saitta, fratello della prima vittima del film, misteriosamente avvelenata durante un party. E se i sospetti ricadono inizialmente su un medico che aveva una relazione clandestina con la ragazza, i delitti continuano a susseguirsi apparentemente senza un filo logico, ad eccezione della suddetta collana: dove conduce esattamente la scia di sangue lasciata dall’assassino?

In bilico tra il giallo classico e il poliziesco all’italiana, in un vortice di inseguimenti mozzafiato, scazzottate all’ultimo sangue, dettagli macabri (su tutti, il ritrovamento del cadavere mutilato di una vittima all’interno di una schiacciatrice) e, colpo di genio!, una magnifica rissa tra il detective e tre travestiti potenzialmente invischiati nei delitti, Alberto De Martino confeziona un film più che dignitoso, dove la mancanza di veri colpi di scena è sopperita da un ritmo adrenalinico e un montaggio spericolato, che garantiscono un’ora e quaranta minuti di intrattenimento per una pellicola sicuramente non memorabile, ma senza dubbio di gradevole fattura.

Stuart Whitman nel ruolo del protagonista svolge il suo compito in modo diligente, ma è Martin Landau, pietra miliare del cinema d’oltreoceano, nonché premio Oscar 1995 come Miglior attore non protagonista per Ed Wood, la vera sorpresa del film. Piuttosto marginali John Saxon nei panni del sergente Matthews e un’inedita Tisa Farrow, questa volta non propriamente a suo agio nei panni di Julie, amica non vedente della prima vittima (se la caverà meglio diretta da Massaccesi e Fulci nei cult Antropophagus e Zombi 2).



Già pubblicato su Cinema Italiano Database.

venerdì 30 dicembre 2016

CINEMA
Vacanze di Natale


Sulla scia del grande successo di Sapore di mare, gradevolissima commedia sugli amori e i divertimenti di un gruppo di giovani provenienti da tutta Italia che trascorrono l’estate del 1964 a Forte dei Marmi, i fratelli Vanzina cambiano periodo dell’anno (Natale), ambientazione (Cortina) e periodo storico (contemporaneo) e creano il fenomeno di massa denominato “cinepanettone”. E fa sicuramente un certo effetto vedere come negli anni questo “genere” cinematografico si sia evoluto (ma sarebbe più appropriato dire “involuto”) mantenendo leggerezza e spensieratezza, ma perdendosi per strada un certo limite di buongusto, una caratterizzazione più efficace dei personaggi e la capacità, sempre e comunque, di strappare una risata anche senza scadere in eccessive volgarità.

Gli ingredienti della “nuova” commedia all’italiana sono tutti ben amalgamati: c’è Billo, playboy che suona al piano bar dell’albergo di Cortina attorno al quale ruotano le vicende del film, c’è la famiglia di ricchi costruttori edili Covelli (esilaranti Riccardo Garrone e Rossella Como), raggiunti dal figlio Christian De Sica insieme alla sua nuova fidanzata americana (la compianta Karina Huff), contrapposta alla famiglia romana dei Marchetti, rozzi, simpatici e alla mano, capitanati dal solito Mario Brega in splendida forma. C’è la famiglia di Donatone Braghetti, milanese arricchito sposato a un’annoiatissima Stefania Sandrelli, ex fiamma di Billo e amica di Grazia Tassoni, una Marilù Tolo frizzante e sessualmente libera in uno dei suoi ultimi ruoli sul grande schermo. La spensieratezza e i festeggiamenti del periodo natalizio rappresenteranno un’occasione più che propizia per scatenare una serie di equivoci, tradimenti e momenti di esilarante comicità tipici del lusso, della sfrontatezza e della leggerezza della commedia all’italiana degli anni ’80.

Grande successo al botteghino, il film si avvale di un cast praticamente perfetto, che unisce grandi nomi del cinema italiano a nuove promesse, belle ragazze e playboy incalliti, con un’ambientazione che a distanza di oltre 30 anni continua a divertire, intrattenere e rappresentare alla perfezione lo sfarzo e la leggerezza di un periodo storico, quello degli anni ’80, che nel bene e nel male ha segnato usi e costumi del popolo italiano in modo viscerale e anticonformista, nel suo inevitabile conformismo.

Vanzina replicherà il successo natalizio l’anno successivo con Vacanze in America, ma il vero filone inizierà a svilupparsi solo 6 anni dopo, con Vacanze di Natale ’90, per la regia di Enrico Oldoini, nel cui cast andrà ad aggiungersi Massimo Boldi, presenza fissa dei cinepanettoni degli anni a venire.



Già pubblicato su Cinema Italiano Database.

lunedì 8 agosto 2016

LIFE
Ali

Io da qualche parte le ali devo averle, ne sono più che sicuro.
Ce le hanno tutti. Ce le hanno sempre avute tutti.
A volte si spezzano, a volte funzionano male, a volte cadono proprio.
Qualcuno se ne è servito per volare talmente in alto da superare i propri limiti.
Io le mie non le ho mai viste, e non perché dovrebbero essere alle mie spalle.
Temo che non siano ancora spuntate. Mi auguro solo che ci mettano tutto questo tempo per portarmi davvero in alto. Che crescano belle forti e resistenti. Che mi aiutino a salire, anche a scendere in picchiata, qualche volta, per poi farmi mancare il fiato dall'emozione quando mi riporteranno ancora più su.
Perché volare deve essere davvero emozionante, così mi dicono e così percepisco.
A volte questo imperdonabile ritardo mi fa un po' paura, e farà paura anche a qualcun altro, lo capisco. Però, dopo tutta questa attesa, sono certo che volare sarà ancora più bello, perché alla spensieratezza aggiungerò la saggezza del tempo che è trascorso e la consapevolezza di quello che ancora avrò davanti.
Ne varrà la pena. È l'unica cosa che mi permette di continuare a stare a seduto ad aspettare che escano da sole, queste ali, anziché mettermi a scorticare la schiena per tirarle fuori se non sono ancora pronte.

mercoledì 29 giugno 2016

LIFE
Anaffettivi anALPHAbeti


Quanta acqua scorre tra un “Zitta, troia!” e un “Muori, frocio di merda!”?
Nemmeno una goccia.
Fa comodo non vederlo, non farci caso, far finta di nulla, ma entrambe le espressioni sono figlie dello stesso tumore civile: il maschilismo.
Quel maschilismo che nasce in famiglia, tutti riuniti amorevolmente davanti alla TV (mamme comprese) a guardare sfilate di seni e fondoschiena in bella vista, con il bimbo imbarazzato che guarda il padre con un’espressione mista tra il divertito, l’eccitato e l’imbarazzato, e il padre che, con sguardo fiero e imperioso, ammicca al figlio con un occhiolino, scuotendo leggermente la testa divertito in direzione della televisione. “Quella, figlio mio, è una femmina”, sembra dirgli. “Una femmina umana accogliente e subito pronta. Nata per essere castigata”.
E poco importa se il bimbo, dopo qualche anno, si ritrova in un gruppo di altri ragazzi come lui senza che nessuno di loro si fermi un secondo a riflettere sul fatto che “Cazzo, stiamo stuprando una ragazzina!”
Poco importa se, di fronte a una discussione con una donna, quel giovane non troverà di meglio che darle della “troia”, azzerando in un attimo qualsiasi tentativo costruttivo di critica e relegando a semplice meretrice il ruolo della sua interlocutrice.
Poco importa se, crescendo, quel ragazzino scoprirà che quel fondoschiena e quei seni non sono poi così interessanti, perché ricorderà le parole della sua famiglia, quella secondo cui “un uomo è uomo solo se ficca”.
Importa poco, sì, perché di fronte a gesti inconsulti e bestiali come un branco che stupra una ragazzina ci sarà sempre un padre o una madre del genere “alpha” che sarà pronto a perdonare la “ragazzata” (cit.) dei loro figli.
L’importante è incastrare la giusta combinazione “pene+vagina”, condannare la sgualdrina di turno perché “poteva evitare di essere così provocante e girare in minigonna” (d’altronde, sono numerosissimi i casi di violenza attuati da lesbiche nei confronti di tante donne in minigonna, no?), storcere il naso di fronte al Gay Pride perché “va bene tutto, ma certe cose fatele a casa vostra, altrimenti cosa spiego a mio figlio?”.

A parte che, come ho già ribadito più volte, il problema di elargire spiegazioni ai vostri figli è solo vostro, ma magari spiegategli come accade che uno o più maschi costringano una ragazza a subire uno stupro.
Spiegategli perché in televisione vengono sbattuti così tanti clitoridi in primo piano.
Spiegategli perché i gay non possono sfilare a torso nudo su un carro ma le ragazze che procacemente mettono in mostra la loro mercanzia sì.
Spiegategli come mai un ragazzino è stato picchiato a morte dai suoi compagni: pensate potrà bastar loro la spiegazione “Preferiva giocare con le Barbie anziché con i soldatini”?
Beh, sappiate che se per loro dovesse essere sufficiente, avete fallito. Come padri, come uomini, come esseri umani. E hanno fallito anche le donne al vostro fianco, spesso in prima fila a condannare la libertà altrui e ad appoggiare le teorie secondo cui “se l’è andata a cercare”, “l’uomo lavora, la donna a casa a pulire” e “se avessi un figlio gay lo sbatterei fuori di casa”. Donne la cui memoria corta impedisce loro di riconoscere che nasciamo liberi e con gli stessi diritti. Diritti di amare, di essere rispettati, persino di mostrare un capezzolo o una chiappa al vento, una volta ogni tanto.
State consegnando ai giovani un futuro (e un paese) disperato, ma a voi poco importa.
L’importante è che lo affrontino a testa alta e cazzo dritto.

domenica 27 luglio 2014

LIFE
Lo zen e l'arte di farsi i cazzi propri in chat

Facciamo il doveroso disclaimer di inizio post. In teoria non ce ne dovrebbe essere bisogno, in pratica sarà necessario.

QUESTO POST NON INTENDE MINIMAMENTE ATTACCARE IL GUSTO PERSONALE DEL LETTORE CHE, IN QUANTO PERSONA DOTATA DI PREFERENZE PRETTAMENTE INDIVIDUALI, È OVVIAMENTE ORIENTATO VERSO CARATTERISTICHE ESTETICHE E FISICHE CHE SONO DA RITENERSI INSINDACABILI. L'AUTORE CI TIENE A PRECISARE CHE IL CONTENUTO DI QUESTO POST SI RIFERISCE A UN FATTORE PURAMENTE FORMALE, CHE NULLA A CHE VEDERE CON IL CONTENUTO STESSO DI QUANTO RIPORTATO DALLE CONVERSAZIONI AVUTE CON I SUOI INTERLOCUTORI O DA QUANTO RECEPITO IN SEGUITO AD ANNI DI COSTANTE ESPLORAZIONE.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è di per sé una stronzata. Una di quelle cose che evidentemente, presa fuori contesto, sembrerebbe innocua e apparentemente inutile da sottolineare. Proprio come accadeva nel bellissimo incipit di Rose Madder di Stephen King, dove la malcapitata di turno, omonima protagonista del romanzo, dopo continui soprusi e violenze da parte del marito, perde completamente la testa quando una goccia di sangue le cola dal naso e contamina il candore del lenzuolo sul letto che stava riordinando in una mattinata qualsiasi. Un capillare rotto all'improvviso, come è capitato molte volte a ciascuno di noi, senza motivo. Eppure quella goccia di sangue rappresenta la goccia di troppo, quella che fa aprire gli occhi alla donna e la porta a ribellarsi.
La mia goccia di sangue è una frase apparentemente innocua, scritta anche (forse) con l'intento di strappare un sorriso a chi legge, su un profilo di una comunissima chat per incontri finalizzati essenzialmente al sesso:
Se avete la panza, non è colpa mia, mica so' venuto a casa vostra a ingozzarvi di lasagne con un imbuto
A questo punto è d'obbligo chiarire due punti:
1 - Colpa? Quale colpa? Se parliamo di colpa, inevitabilmente stiamo dando per scontato che un'azione da noi compiuta determini una "punizione", una "rinuncia" di cui dovremo privarci per esserci ingozzati la suddetta lasagna con un imbuto. Di grazia, quale sarebbe questa rinuncia? Non avere l'occasione e il privilegio di essere toccati da mani atletiche? Perdere l'occasione della vita di sdraiarci accanto al portatore di orgasmi e gioie per eccellenza?
2 - Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Se però domanda non sussiste, l'informazione, dalla forma indubbiamente denigratoria, è superflua. Voglio dire, anche sti cazzi, eh? Conoscendo il soggetto di persona, anche io ho pensato subito "Se sei deficiente, non è colpa mia, mica so' venuto in classe tua mentre il professore spiegava e ti ho portato di peso in palestra a fare 25 serie di addominali". Ho semplicemente evitato di dirlo, perché non mi è stato chiesto.

Il punto è questo: che cos'è che ci porta a esprimere un parere discriminatorio quando non ci viene minimamente chiesto? Perché, in nome di una preferenza assolutamente legittima, frasi come "Preferisco incontrare gente atletica" o "Non sono attratto da tipologie androgine" lasciano il posto a "Alla larga cessi, grassoni e checche"?
È perché la CREATINA ha preso talmente il sopravvento nel cervello da perdere una A e trasformarsi in CRETINA?
È il "non chiesto" che a me manda letteralmente fuori di testa.
Peccato per la pancia, perché hai un viso bellissimo
Peccato per chi? Per me? E chi mi garantisce che, se mi chiudo in palestra 5 ore al giorno per 10 mesi, mi aspettano sensazionali ore di fuoco con te? No, perché se poi lo faccio, vengo a battere cassa, e so' cazzi amari, eh?
Non ho minimamente intenzione di dilungarmi su quanto una foto possa fuorviare o formulare in noi un giudizio solamente apparente di quello che può aspettarci dall'altra parte dello schermo, sono il primo a farlo. La foto (se reale, poi, e recente) è un fattore di selezione naturale, dà un'indicazione approssimativa di ciò che potrebbe attenderci. E potrebbe anche dare un suggerimento sbagliato, ma tant'è: la chat è il luogo meno indicato per dare una chance a chiunque solo perché potremmo rimanere sorpresi da ciò che potremmo ritrovarci di fronte.
Ho però intenzione di dilungarmi sulla scelta delle parole. Quello sì.
Sull'arroganza.
Sulla mancanza di rispetto.
Sulla superficialità di un giudizio rivolto a una persona di cui non sappiamo nulla, non conosciamo il suo trascorso, non sappiamo quali difficoltà potrebbe aver dovuto affrontare per arrivare dove è arrivata e nelle condizioni in cui ci è arrivata. Selezionare è una delle azioni più comuni al mondo. Lo facciamo quando andiamo a fare la spesa, scegliendo la mela che ci SEMBRA più sana, più bella e più profumata (il che non esclude che possa essere marcia una volta sbucciata), lo facciamo quando vogliamo comprarci un paio di pantaloni, puntando al modello che ci risalta il culo o ci sfina le gambe (fermo restando che, quando lo togliamo, i trucchi sono finiti), però guarda caso quando dobbiamo scegliere un partner per la vita la selezione avviene in modo naturale e involontario: non scegliamo mai di chi innamorarci. Non ci sediamo alla scrivania pensando "OK, ora mi concentro e mi innamoro di lui/lei". A volte ci stupiamo, addirittura, della persona che ci ritroviamo accanto, perché molte volte quella persona non ha nulla a che vedere con le nostre preferenze. È successo e basta, e per quanto mi riguarda la sorpresa è ancora più eccezionale della conferma di aver trovato accanto a noi la materializzazione di ogni nostra più piccola fantasia.
Selezioniamo, perché il mercato offre di tutto e di più.
Continuiamo a farlo, perché è giusto puntare a ciò che noi crediamo meritevole e degno di starci accanto.
Però facciamolo con educazione, con rispetto, con buone maniere, porca puttana!
E ricordiamo sempre che, in un'interazione, un parere non richiesto non è un parere. È solo una mancata occasione di incamerare più ossigeno e fare più bella figura.


E comunque sappiate che, nel caso remoto in cui dovessi davvero decidere di chiudermi in palestra 5 ore al giorno per 10 mesi, il mio cervello non subirà alcuna modifica, e mi ricorderò di ognuno di voi...

mercoledì 4 giugno 2014

CINEMA
Maleficent


SPOILER ALERT: SE AVETE INTENZIONE DI VEDERE QUESTO FILM, PASSATE OLTRE


Malefica ha tutto il sacrosanto diritto di chiamarsi così. Io fossi stato in lei, più che Malefica, mi sarei chiamato IncazzataNera. Voglio dire, sei una giovane e incantevole fata che decide di concedere una tregua all'eterna lotta tra il tuo regno e quello degli uomini dopo aver conosciuto un essere umano che ti dichiara il vero Amore, ma scopre di essere più attratto dalla sete di ambizione e di potere che da te, ti tradisce di fronte alla possibilità di diventare futuro re, ti tronca le ali e le porta nel Regno degli Uomini dichiarando di averti sconfitta e di meritare la successione al trono. Come minimo, ti devi chiamare Malefica. Ma da questo momento in poi. Per quale motivo ti chiamassi Malefica anche prima, rimane un mistero.
Proseguiamo.
La fata furibonda diventa una temibile strega, trasforma il suo regno incantato nel regno delle tenebre, irrompe al battesimo della figlia di Re Stefano e lancia una maledizione su di lei: la giovane crescerà in grazia e gloria, ma il giorno del suo sedicesimo compleanno si pungerà il dito sul fuso di un arcolaio e morirà. O meglio, cadrà in un sonno eterno, da cui potrà risvegliarla solo il bacio del Vero Amore (e per la signora, furibonda nei confronti di Eros, la pupa è spacciata).
Re Stefano, che sembra stupido, ma stupido non è, fa bruciare tutti gli arcolai del regno, nasconde la piccola nel bosco per sedici anni (insieme a tre fate rincoglionite) e impazzisce per il rimorso nell'attesa che si compia la maledizione. IncazzataNera ci mette un nanosecondo a sgamare il rifugio di Aurora e la spia, rancorosa, per tutta la sua giovane esistenza. E cosa accade, signore e signori?
Ci fa amicizia.
Il suo duro cuore di pietra si scioglie, si affeziona alla simpaticissima scassaminchia dai riccioli d'oro e arriva persino a PENTIRSI e ritirare l'incantesimo. Ma la signora ha fatto la smargiassa, sedici anni prima, affermando che nessun potere sarebbe stato in grado di spezzare la maledizione. Rassegnata, vede la sua previsione compiersi senza poter fare nulla per impedirlo. In un ultimo gesto disperato, addormenta un giovane principe che aveva scambiato due battute con Aurora il giorno prima, lo porta nel castello e lo fa risvegliare sul letto della principessa addormentata. È il principe stesso a guardare basito le tre rincoglionite convinte che il Vero Amore possa essere lui ("L'ho vista solo una volta, è carina, per carità, ma perché dovrei baciarla?"). E ovviamente (e logicamente) l'incantesimo non funziona. A questo punto, IncazzataNera si avvicina alla biondina, le chiede scusa per il male procuratole, la bacia sulla fronte e... l'incantesimo si spezza, lancia Re Stefano da una torre dopo un agguerrito combattimento (aiutato dalla stessa Aurora, che le ridà indietro le ali conservate dal padre in una teca), recupera il Principe, celebra il matrimonio tra i due giovani, riacquista la serenità e sancisce la pace definitiva tra Regno degli uomini e Regno delle fate e chi s'è visto s'è visto.

L'idea di cambiare le carte in tavola offre qualche spunto interessante: in primis, la dissacrazione definitiva dello stramaledetto Principe Azzurro, nient'altro che un fregnaccione con un improbabile taglio di capelli che ha bisogno della pappa servita per svolgere il suo dovere di maschio alpha. L'Amore, quello vero, è Femmina, si chiama Angelina Jolie e ha le labbra più rinvigorenti del mondo (Lesbo, can you hear me?)
Ci vuole una buone dose di coraggio per stravolgere un Classico dei Classici, ribaltare il ruolo della principessa risvegliata dal suo cavaliere, uccidere il Re e lanciare sul carro dei vincitori la perfidia per eccellenza tra tutti i capolavori di Walt Disney. L'impressione, però, è quella di aver sentito l'esigenza di sfruttare la Jolie per tutta la durata del film (e come dare torto agli sceneggiatori?), facendola necessariamente interagire con l'insopportabile principessa e, di conseguenza, donandole l'unico sentimento che a Malefica non appartiene: il rimorso. Una volta inserito questo virus nel sistema, l'evoluzione che ne scaturisce sembra appartenere più a un quarto capitolo del Signore degli anelli che a una fiaba immortale.
Un film girato con, su e per Angelina, Malefica perfetta: bellissima, bravissima e forse mai così umana.
Va bene, facciamo finta di crederci. Non chiamiamolo però un punto di vista alternativo de La bella addormentata nel bosco, dato che nel film, di addormentato, c'è davvero solo il Principe Azzurro.
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