mercoledì 4 maggio 2011

CINEMA
Piccola storia dello slasher e una recensione sulla saga di Halloween di Rob Zombie

Ci sono film horror che puntano biecamente all'effetto truculento, splatter e totalmente gratuito. Ci sono film horror che puntano a spaventare gli spettatori semplicemente alzando al massimo il volume degli effetti sonori. E poi ci sono film horror come Halloween di Rob Zombie. E sono tutta un'altra storia.

Gli slasher movie negli anni hanno subito un particolare processo di evoluzione. Tanto per cominciare, "Il genere denominato slasher (dall'inglese "To slash", ferire profondamente con un'arma affilata) si riferisce a quel gruppo di film horror in cui il protagonista indiscusso è un maniaco omicida (spesso mascherato) che dà la caccia ad un gruppo di persone (spesso giovani) in uno spazio più o meno delimitato, utilizzando in genere armi da taglio per ucciderli in modo cruento." (Wikipedia).
Due sono i capostipite degli slasher movie, entrambi statunitensi: Halloween, la notte delle streghe di John Carpenter e Venerdì 13 di Sean Cunningham (ma entrambi devono molto al Genio italiano di Mario Bava). Le due pellicole presentano notevoli momenti di tensione alternati a scene raccapriccianti e decisamente violente (su tutte, l'uccisione di un giovanissimo Kevin Bacon o la spaventosa e lunghissima sequenza di inseguimento e aggressione subita da una bellissima Jamie Lee Curtis). In pieni anni '80, lo slasher subisce tuttavia una svolta con la saga di Nightmare di Wes Craven: i toni si abbassano, la quantità di sangue si riduce drasticamente e subentra un nuovo, spiazzante elemento: l'ironia. Freddy Krueger diviene un'icona grazie al suo artiglio letale e al suo umorismo estremo, con cui colpisce le sue giovani vittime prima di aggredirle nei modi più fantasiosi. Il prodotto è ora commercializzato nel vero senso della parola e destinato a un pubblico di quasi tutte le età.

Dopo un lungo periodo di silenzio nel campo dell'horror, è proprio Wes Craven a creare nel 1996 la saga slasher cinematografica più redditizia della storia del cinema: Scream. Questa volta il carnefice è travestito da Urlo di Munch (in lingua originale il personaggio si chiama Ghostface), ma le regole dello slasher rimangono le stesse: giovani ragazzi e ragazze dagli ormoni impazziti in una ristretta comunità cittadina cadono vittima dello psicopatico di turno, incappucciato e armato di coltelli. Numerosissime le autocitazioni (altro elemento diffusissimo negli horror giovanili) e la vena comica è alle stelle.

Bisognerà attendere il 2003 per arrivare all'ultima (almeno per il momento) svolta nel genere: Marcus Niespel dirige Non aprite quella porta e inaugura la lunga stagione dei remake. Da questo momento in poi, lo slasher infrange tutte le regole del "buonismo commerciale" finora applicato: le immagini sono estreme, al limite del sopportabile, e i cast iniziano a vantare giovani stelle del cinema che in pochi anni diverranno veri e propri idoli dei ragazzi, ma con una marcia in più: sanno recitare e, soprattutto, urlare. La lunga sfilza di remake estremi coinvolge Non aprite quella porta: l'inizio, Le colline hanno gli occhi, Venerdì 13, Nightmare e la nuova saga che segue le gesta di Michael Myers, ovvero Halloween e Halloween II, entrambi diretti da Rob Zombie.

Nel 2003 Rob Zombie è sconosciuto al grande pubblico, ma piuttosto apprezzato nel genere Heavy Metal come leader degli White Zombie. È in quest'anno che decide di passare dietro la macchina da presa per dirigere il suo primo lungometraggio, il debole La casa dei 1000 corpi. Con il film successivo, La casa del diavolo, il regista inizia tuttavia a sparare le sue cartucce e mostrare un certo gusto cinematografico e a premere l'acceleratore sulla violenza a ogni costo, fino ad arrivare al 2007 con il remake di Halloween.

E già a questo punto si potrebbe sollevare un'obiezione: Halloween di Rob Zombie non è in tutto e per tutto un remake del capolavoro di John Carpenter, ma piuttosto una rivisitazione a tinte forti, in cui seguiamo le gesta di Michael Myers fin dalla sua infelice infanzia all'interno di una famiglia violenta e completamente abbandonata a se stessa. I soprusi e l'aria malsana respirata in casa Myers culmineranno in una vera e propria strage per mano del giovanissimo Michael che, in una lunga sequenza al limite del visivamente sostenibile, scatena tutta la sua furia su sua sorella, sul suo compagno e su suo padre. Al ritorno dal lavoro, la signora Myers troverà il figlio seduto sulle scale del patio, con in braccio la neonata sorellina scampata alla strage. Rinchiuso in manicomio, Michael porta dietro di sé la scia di rabbia e violenza che si abbatterà anche su un'infermiera e a poco sembrano servire le cure del medico a cui viene affidato, il dottor Loomis, interpretato superbamente da Malcolm McDowell, indimenticato Alex di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (nella versione originale il personaggio è interpretato da Donald Pleasance, attore specializzato nel cinema di genere, anche italiano). 15 anni dopo, la fuga di Michael durante il suo trasferimento a un altro ospedale psichiatrico permette al regista di introdurre il personaggio di Laurie Strode, che scopriremo essere la sorella del serial killer sopravvissuta alla strage. Michael intende portare a termine il suo piano, ma lascerà dietro di sé una scia di sangue, violenza e terrore fino all'iperbolica sequenza finale, in cui il protagonista finirà sotto le grinfie di Laurie in un climax catartico e decisamente estremo.

Il secondo capitolo si riapre esattamente dove il primo si era concluso, con la giovane Strode gravemente ferita e ricoperta di sangue mentre grida disperata la sua richiesta di aiuto. E se Laurie viene prontamente trasferita in ospedale, Michael, ritenuto morto, riesce a fuggire ancora una volta, grazie anche a una prestanza fisica impensabile e irraggiungibile per un comune essere umano, e a introdursi nell'ospedale in cui è ricoverata sua sorella. Da questo momento, il film svolta definitivamente in una lunga sequenza di violenze ed efferatezze probabilmente mai eguagliate sul grande schermo. E la bravura registica di Rob Zombie (in questo secondo capitolo ancora più evidente) è testimoniata dall'inserimento di argomenti sociali (lo sciacallaggio dei mass-media, pronti a sbattere il mostro in prima pagina o, come in questo caso, nelle pagine di un libro) e soprannaturali (l'eterea apparizione dello spettro della madre e di Michael adolescente, accompagnati da un cavallo bianco, simbolo di un irrefrenabile istinto a scatenare emozioni incontrollabili e rabbiose, come il caos e la distruzione), perfettamente integrati nelle scene di orrore, assolutamente giustificate dalla natura demoniaca di Myers, che incarna letteralmente il Male assoluto. E prima di giungere al regolamento di conti definitivo tra Michael e sua sorella, saremo testimoni di alcune sequenze agghiaccianti, rappresentate a titolo esemplificativo dall'omicidio di una ragazza ripetutamente scagliata contro uno specchio.

Prendere un mito come quello creato da John Carpenter e rimaneggiarlo e adattarlo a proprio piacimento rappresentava senza dubbio un'impresa rischiosa. Rob Zombie cattura l'idea, l'iconografia, l'indimenticabile colonna sonora originale e le sequenze salienti del film del 1978 e crea una propria saga in modo oculato, intelligente ed estremamente accurato nel delineare la psicologia dei personaggi, con una mano registica esperta e mai titubante, un montaggio al cardiopalma e una serie di attori assolutamente perfetti per incarnare il Male in azione (l'intera famiglia Myers) e il Bene contro cui si scaglia (eccellenti le performance di Scout Taylor-Compton nei panni della tormentata protagonista e Brad Dourif nel ruolo dello sceriffo Brackett che nel secondo capitolo adotterà la giovane Laurie, rimasta orfana, con esiti sconvolgenti). In conclusione, 200 minuti di orrore puro che non lasciano spazio ai rimpianti o alla sensazione di aver assistito a un brutto remake di quello che è, e resta a oltre 30 anni di distanza, un capolavoro della cinematografia horror.

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