giovedì 26 dicembre 2013

CINEMA
La commare secca

Titolo originale La commare secca
Paese di produzione Italia
Anno 1962
Durata 88 min
Regia Bernardo Bertolucci
Sceneggiatura Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti
Fotografia Gianni Narzisi
Montaggio Nino Baragli
Musiche Piero Piccioni
Scenografia Adriana Spadaro
Costumi Adriana Spadaro
Cast Francesco Ruiu, Giancarlo De Rosa, Vincenzo Ciccora, Alfredo Leggi, Gabriella Giorgelli, Santina Lisio, Carlotta Barilli, Ada Peragostini, Clorinda Celani, Allen Midgette, Renato Troiani, Vanda Rocci, Marisa Solinas, Alvaro D'Ercole, Romano Labate, Emi Rocci, Lorenza Benedetti, Erina Torelli, Silvio Laurenzi, Gianni Bonagura

...e già la Commaraccia secca de strada Giulia arza er rampino
Così Gioacchino Belli definisce la Morte in un suo celebre sonetto. Bernardo Bertolucci, al suo esordio alla regia nel 1962, trae spunto da questo verso per creare un giallo di ambientazione romana tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. E l'impronta pasoliniana, in questa pellicola, è ben marcata. Il ritrovamento del cadavere di una prostituta sul greto del Tevere offre lo spunto al regista per presentare una serie di personaggi visti la sera del delitto nel parco in cui la donna esercitava il mestiere: c'è il "Canticchia", ragazzino impegnato in piccoli furtarelli insieme ai suoi compagni di ventura, il "Califfo", mantenuto dalla sua fidanzata, una strozzina che ha accompagnato lungo una giornata di riscossioni, "Teodoro", giovane soldato meridionale con il pallino per "i fimmine" che ha trascorso il giorno in giro tra le rovine di un'incantevole Roma e si è addormentato su una panchina del parco senza rendersi conto di costa stesse accadendo, "Natalino", eccentrico friuliano con ai piedi un paio di zoccoli che afferma di essere passato solo furtivamente nei pressi del luogo del delitto. Una serie di personaggi immersi nel pieno Neorealismo di cui il Pasolini fu per l'appunto il principale rappresentante. Ma La commare secca, anche e soprattutto per l'ambientazione arida, rurale e afosa della Roma dei bei tempi andati, richiama alla memoria un altro grande classico della cinematografia di genere, Un maledetto imbroglio, che solo 3 anni prima Pietro Germi aveva realizzato rielaborando il capolavoro letterario di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Bernardo Bertolucci getta solide fondamenta per la sua cinematografia a venire, dimostrandosi fin dal suo esordio un abile regista in grado di catturare sullo schermo la psicologia e le caratteristiche squisitamente umane dei suoi personaggi. Sapiente l'uso che fa della cinepresa, con inquadrature moderne, funzionali al racconto e capaci di catturare l'essenza della Città eterna e dei protagonisti che ruotano attorno alla vicenda. Nino Baragli, incaricato del montaggio, offre una prova eccellente di maestria tecnica e la fotografia di Gianni Narzisi regala scorci di Roma ormai perduti e, forse anche per questo motivo, meravigliosamente affascinanti. Superbo, infine, il lavoro di restauro a opera di Mediaset Cinema Forever, un'iniziativa che, in memoria di Carlo Bernasconi, manager cinematografico e televisivo artefice dell'operazione di recupero di vecchi film, ha riportato al suo originale splendore capolavori a rischio di estinzione quali Deserto Rosso, Giulietta degli Spiriti e Mamma Roma.
Una curiosità: il film venne distribuito all'estero con il titolo The grim reaper, lo stesso che verrà utilizzato alcuni anni dopo per un'altra pellicola di tutt'altro genere, il capolavoro horror Antropophagus di Joe D'amato/Aristide Massaccesi.
Un'opera d'arte imprescindibile nella videoteca di ogni collezionista.

mercoledì 25 dicembre 2013

CINEMA
Nero veneziano

Titolo originale Nero veneziano/Damned in Venice
Paese di produzione Italia
Anno 1978
Durata 95 min
Regia Ugo Liberatore
Sceneggiatura Ottavio Alessi, Roberto Gandus, Domenico Rafele
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Alberto Gallitti
Musiche Pino Donaggio
Scenografia Givanni Soccol
Cast Renato Cestiè, Rena Niehaus, Yorgo Voyagis, Fabio Gamma, José Quaglio, Olga Karlatos, Tom Felleghy, Bettina Mille, Lorraine De Selle, Ely Galleani, Angela Covello, Florence Barnes, Gloria Bozzola, Francesca Bosco, Linda Larsen, Jaqueline Kluger, Tiziana Cipelletti, Renzo Martini

Venezia ha da sempre esercitato un certo fascino sul cinema italiano, e in particolare sul genere giallo/horror. Numerosi sono gli esempi a tal proposito: basti pensare a Chi l'ha vista morire?, elegante giallo di Aldo Lado in cui un serial killer ossessionato da bambine dai capelli rossi si aggira indisturbato lungo i canali veneziani, La vittima designata, dove un inedito Tomas Milian gioca al "delitto per delitto" di hitchcockiana memoria con Pierre Clémenti, Anima persa, ottimo giallo di Giovanni Arpino con un iperbolico Vittorio Gassman in un ambiguo doppio ruolo, senza tralasciare A Venezia un dicembre rosso shocking, coproduzione britannica/italiana e capolavoro assoluto dei brividi lagunari di Nicolas Roeg.
Fuori tempo massimo, Ugo Liberatore gira nel 1978 il suo ultimo lungometraggio (nonché unico horror della sua carriera), una fiaba horror di possessioni demoniache e avventi dell'Anticristo ambientata, per l'appunto, a Venezia. Un giovane Renato Cestié, il bambino protagonista accanto a Nicoletta Elmi nello spiazzante finale di Reazione a catena di Mario Bava e che qualche anno dopo avrebbe preso parte al telefilm topico degli anni '80 tricolore, I ragazzi della terza C, interpreta il ruolo di Mark, quattordicenne cieco e affidato alle cure poco amorevoli della sorella Christine. I due adolescenti ereditano una fortuna in seguito alla morte della nonna e la ragazza decide di aprire una pensione nella città del Lido, ma le "visioni" demoniache del fratello e l'apparizione di un misterioso individuo intenzionato a soggiornare nell'hotel appena aperto daranno il via a una girandola di eventi paranormali e raccapriccianti che culmineranno nel recupero della vista da parte del ragazzo, non senza disastrose conseguenze.
Caratterizzato da luci fredde e da una fotografia asettica, curata da Alfio Contini, Nero veneziano è un horror che avrebbe potuto/dovuto osare di più. Essenzialmente incentrato sulla figura del giovane Mark, stenta a decollare per via di una sceneggiatura quasi castrata, penalizzata dall'impossibilità di tradurre in reale orrore alcune premesse davvero buone. Le sequenze visionarie garantiscono comunque un certo effetto e sono esteticamente ricercate, con riverberi e flash luminosi che conferiscono alle immagini un aspetto ultraterreno. In ritardo rispetto alla tematica demoniaca, affrontata nel decennio in tutti i modi possibili e immaginabili, Nero veneziano si lascia guardare solo in parte e il finale aperto offre pochi spunti di riflessione. Peccato.

VIDEOBLOG
Cinema: Nude si muore (1968)

martedì 24 dicembre 2013

CINEMA
L'assassino... è al telefono

Titolo originale L'assassino... è al telefono
Paese di produzione Italia, Belgio
Anno 1972
Durata 105 min
Regia Alberto De Martino
Sceneggiatura Adriano Bolzoni, Alberto De Martino, Renato Izzo, Lorenzo Manning, Vincenzo Mannino
Fotografia Joe D'amato
Montaggio Otello Colangeli
Musiche Stelvio Cipriani
Costumi Enrico Sabbatini
Cast Telly Savalas, Anne Heywood, Osvaldo Ruggeri, Giorgio Piazza, Willeke von Ammelrooy, Rossella Falk, Antonio Guidi, Roger Van Hool, Ada Pometti, Alessandro Perrella, Marc Audier, Piet Balfoort, Georges Bossair, Sandra L. Brennan, Suzy Falk, Leonardo Scavino, Serge-Henri Valcke

Per amnesia si intende la mancanza o la perdita della memoria, soprattutto come incapacità a rievocare esperienze passate. Nel linguaggio della neuropsicologia si distinguono l'amnesia 'anterograda' e quella 'retrograda' o 'retroattiva'. Si parla di amnesia anterograda quando la perdita dei ricordi è relativa a eventi che si sono verificati dopo un trauma cranico o dopo una malattia, il che implica l'incapacità di memorizzare nuove esperienze. L'amnesia retrograda si riferisce invece a eventi precedenti il trauma o la malattia i quali hanno provocato la perdita dei ricordi, un vero e proprio 'buco' nella memoria. (Enciclopedia Treccani)

Quella che affligge Eleanor, protagonista della pellicola del 1972 di Alberto de Martino, sembra essere un mix dei due tipi di amnesia sopra citati: da una parte la donna perde completamente coscienza degli eventi accaduti in seguito al trauma subito per la morte del suo compagno Peter, dall'altra stenta a ricordare i fatti accaduti in concomitanza o immediatamente precedenti alla tragedia. E fatica a richiamare alla memoria anche il volto misterioso dell'individuo che la perseguita incessantemente nella città di Bruges, armato di coltellino a serramanico. Quanti tasselli di un immaginario puzzle dovrà raccogliere per riuscire a ricomporre il quadro? E a quale prezzo? Chi sono le persone che la circondano? Quale ruolo hanno svolto all'interno della vicenda?

Il compito non è sicuramente facile: catturare lo spettatore in un'intricata matassa per 99 minuti senza perdere il filo. L'obiettivo riesce solo in parte. Se da un lato è affascinante l'espediente utilizzato dal regista, che tende la mano al pubblico e lo accompagna nella ricostruzione del passato di Eleanor mentre la donna ricompone le tessere della sua complicata esistenza (una sorta di Memento ante litteram), dall'altra gli inseguimenti e gli attentati subiti dalla protagonista nella incantevole cornice della cittadina belga risultano a tratti lenti, forse addirittura estenuanti e sicuramente non coadiuvati dal tema principale del film, firmato da Stelvio Cipriani, riproposto a intervalli medi di 5 minuti per l'intera durata del lungometraggio. Come in moltissimi altri esempi della nostra cinematografia del brivido, torna anche qui l'omaggio a Hitchcock, nella sequenza pre-finale ambientata sul palcoscenico di un teatro.
Sicuramente raffinate, eleganti e calibrate le performance di Anne Heywood, celebrità hollywoodiana già protagonista di quel La volpe che scopriremo avere più punti in comune con questo film, e di Telly Savalas, non ancora Kojak, splendidamente inquietante nel ruolo del sicario Ranko (lo stesso anno verrà chiamato da Mario Bava per incarnare il Male assoluto nel celeberrimo Lisa e il diavolo). Rossella Falk, regina incontrastata del teatro e degli sceneggiati televisivi, offre l'ennesima prova di bravura in un ruolo ambiguo, perfido, galvanizzante.
Un esperimento interessante, a tratti riuscito, ma in parte penalizzato da alcuni passaggi estremamente tediosi e da un finale lasciato forse troppo in balia di se stesso.

lunedì 23 dicembre 2013

CINEMA
Un delitto poco comune

Titolo originale Un delitto poco comune
Paese di produzione Italia
Anno 1988
Durata 90 min
Regia Ruggero Deodato
Sceneggiatura Gigliola Battaglini, Gianfranco Clerici, Vincenzo Mannino
Fotografia Giorgio Di Battista
Montaggio Daniele Alabiso
Musiche Pino Donaggio
Scenografia Paolo Innocenzi
Cast Michael York, Edwige Fenech, Donald Pleasence, Mapi Galán, Fabio Sartor, Renato Cortesi, Antonella Ponziani, Carola Stagnaro, Daniele Brado, Caterina Boratto, Lewis E. Ciannelli, Renata Dal Pozzo, Giovanni Lombardo Radice

Nel panorama decadente del giallo all'italiana di fine anni '80, dove i pochissimi tentativi di ridare lustro a un genere ormai abbandonato non hanno sicuramente colto nel segno, Un delitto poco comune è una delle rare e piacevolissime eccezioni. Girato con mano esperta da Ruggero Deodato e dominato essenzialmente dalla notevole presenza scenica di Michael York, il film racconta la tormentata vicenda di Robert Dominici, un pianista di successo che porta dentro di sé un segreto agghiacciante. Intanto la città è sconvolta da una catena di omicidi compiuti da persone di età diverse: alcuni testimoni dichiarano di aver visto un giovane allontanarsi dal luogo del primo delitto, altri affermano che il secondo omicidio sarebbe stato compiuto da un cinquantenne, per altri ancora il terzo assassinio sarebbe opera di un settantenne. Qual è dunque il fil rouge che lega indissolubilmente questa catena di morti e, soprattutto, qual è il particolare che lega Robert agli assassini e alle vittime?

Ruggero Deodato, che ha raggiunto la fama a livello mondiale per generi cinematografici ben lontani dal giallo, dimostra di sapersi muovere egregiamente all'interno di una matassa intricata di tradimenti, sospetti, omicidi e tensione, sviluppando un prodotto di buona fattura nell'asfittico panorama del cinema di genere italiano alla fine degli anni '80 e dimostrando di aver appreso la lezione del Maestro del Brivido internazionale, Sir Alfred Hitchcock, rivelando l'assassino a metà film e costringendo lo spettatore a un brusco cambio di marcia: il dubbio "chi è stato?" lascia il posto a un'altra domanda, ovvero "quale sarà la sua prossima mossa?"

Donald Pleasance veste anche questa volta i panni dell'ispettore di polizia incaricato delle indagini, proprio come era accaduto qualche anno prima con il fortunatissimo Sotto il vestito niente targato Vanzina. Il ruolo femminile, assolutamente di contorno, ma funzionale agli esiti della vicenda, è affidato a una matura, ma sempre bellissima, Edwige Fenech. Raffinate ed eleganti le musiche di Pino Donaggio e la scenografia di Paolo Innocenzi.

Da recuperare.

domenica 8 settembre 2013

LIFE
Il savoir faire nell'arte di scopare

È successo stasera, durante la solita conversazione via WhatsApp con il mio alter ego/amico/fac-simile, e in risposta alla mia domanda: "Però ci vuole anche un po' di savoir fare, non trovi?", ricevo un secco: "No".
La mia espressione somiglia a quella di Clara Calamai riflessa nello specchio di Profondo Rosso.
OK, vediamo di chiarire il punto.

Una serie di preconcetti, strutture e insicurezze abbinata a una massiccia di dose di seghe mentali mi hanno portato nella vita alla convinzione che in qualunque situazione, con qualsiasi persona si interagisca, il savoir faire sia fondamentale. Anche in una scopata.
Voglio dire, il buon vecchio "saper campare" per me non passa mai di moda.
Devo rifiutare un invito? Cerco di far capire che lo apprezzo, ma che sono impossibilitato ad accettarlo.
Devo troncare con qualcuno che non mi va perfettamente a genio? Cerco di far capire che sono emerse delle incompatibilità che ci impediscono di proseguire il discorso, senza che la colpa sia di uno o dell'altro.
Devo passare qualche ora con qualcuno senza impegni o complicazioni di qualsiasi sorta? Cerco di creare una situazione in cui entrambi possiamo sentirci a nostro agio e in perfetta intimità, anche se non ci vedremo più.
Queste sono le regole, o almeno quelle che applico io.
Tendo a vedere le cose tendenzialmente bianche o nere. Sono poche le sfumature che mi concedo.
Fermo restando che ognuno è libero di pensare e agire nel modo che ritiene più consono alla propria personalità, se un incontro si ripete più volte e si condisce di ingredienti particolari, quali una cena, una buona dose di gesti affettuosi, stabilendo una sorta di pseudo-continuità che va a uccidere la fretta e furia con cui ci si riveste quasi con un po' di vergogna e si ritorna nelle proprie case nemmeno si fosse andati a svaligiare una villa sull'Appia Antica, il significato che attribuisco a queste sensazioni è quello di provare a vedere se sussistono le condizioni per guardare un po' al di là del proprio naso, pur consapevole che l'interpretazione è puramente soggettiva e può non essere condivisa da chi interagisce con me. Me ne assumo tutte le responsabilità del caso.
L'ingranaggio per me si inceppa quando subentra la sensazione che dall'altra parte, pur con una risposta continuativa, mi si lasci sistematicamente carta bianca per organizzare anche un semplice momento di divertimento. O quando si palesa l'idea che, se mi dice bene, posso riuscire ad inserirmi in un piccolo spazio all'interno di un'agenda apparentemente fitta di impegni. Se così fosse, ritengo sarebbe il caso di non darlo a vedere, perché a quel punto, è più forte di me, non lascio spazio nemmeno a un incontro di puro relax senza il benché minimo strascico di coinvolgimento emotivo.
E qui torno al punto iniziale: il savoir faire. Essenziale, per quanto mi riguarda, anche "in quei momenti lì".
D'altronde, colpa mia, quando vado al supermercato a comprare un pezzo di manzo, tendo sempre a scegliere quello che si presenta meglio, pur sapendo che, negli altri casi, sempre di manzo si tratta.

venerdì 2 agosto 2013

LIFE
Il giorno dopo

Diciamo che sei a un punto di svolta. Un periodo nuovo, tutto tuo. Un momento anche egoistico, di accumulo punti sulla tessera della vita.
Diciamo che non vai troppo per il sottile: tutto cotto e mangiato.
E diciamo pure che hai scoperto una nuova parte di te che credevi non ti appartenesse, ma che invece ti calza a pennello. Almeno per ora.
Ora, mettiamo che alla tua affatto discreta lista si aggiunga un appuntamento, uno dei tanti, che sembra prospettare sempre lo stesso copione attuato nell'ultima settimana, anche se qualcosa ronza nella testa. Non sai cos'è, ma sai che c'è.
Ti presenti all'appuntamento baldanzoso, sfoggiando la tua camicia preferita, unitamente a una buona dose di autostima e un pizzico di curiosità (alimentato dal ronzio di cui sopra).
E poi succede qualcosa.
Succede che inizi a chiacchierare, a scambiare battute, a parlare di passioni, in comune o meno, a mangiare un gelato.
E passa un'ora. E forse qualcosa di più. E in quest'ora ti accorgi che forse, preso dalla voglia di accumulo e di conferma del fatto che sì, qualcosa è cambiato, ti eri dimenticato del fattore umano, davanti al quale non c'è bella statuina che regga.
La leggerezza, la spensieratezza di passeggiare di sera nella tua città, senza pensare a nulla, se non a goderti il momento.
E quella leggerezza, quella spensieratezza, mandano a puttane i tuoi buoni propositi di uomo che non deve chiedere mai, al punto che poi, sopra le lenzuola (sotto è improponibile, il 2 agosto), sei confuso, non sai come muoverti, hai paura di non dare il meglio di te (come se fossi in gara contro chissà quale avversario, invece di giocare nella stessa squadra con un alleato).
Poi ti saluti, fai un sorriso e torni sulla tua strada.
E il giorno dopo ti guardi un attimo indietro, senza nemmeno capire perché non arriva quel gesto di spontaneità da parte tua che ti consenta di dire "Ehi, sconosciuto! Grazie per la bella serata, sono stato bene". O magari ti arriva troppo tardi.
E inevitabilmente, dandoti un lieve scappellotto, ti chiedi: da quando in qua per ringraziare qualcuno devi sentire la necessità di chiedere il permesso?

sabato 29 giugno 2013

CINEMA
La grande bellezza

Titolo originale La grande bellezza
Paese di produzione Italia
Anno 2013
Durata 142 min
Regia Paolo Sorrentino
Sceneggiatura Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia Luca Bigazzi
Montaggio Cristiano Travaglioli
Musiche Lele Marchitelli
Scenografia Stefania Cella
Costumi Daniela Ciancio
Cast Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Franco Graziosi, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Sonia Gessner, Anna Della Rosa, Luca Marinelli, Serena Grandi, Ivan Franek, Vernon Dobtcheff, Dario Cantarelli, Lillo, Luciano Virgilio, Aldo Ralli, Giusi Merli, Giovanna Vignola, Anita Kravos, Massimo De Francovich, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Fanny Ardant, Antonello Venditti


Da una parte c'è Fellini. C'è La dolce vita. C'è la condanna del radical chic.
Dall'altra c'è uno che vorrebbe essere Fellini, che vorrebbe replicare La dolce vita, che vorrebbe condannare il radical chic.

Non ci metterei la mano sul fuoco, ma credo di conoscere la tipologia di persone che promuove a pieni voti la nuova pellicola di Paolo Sorrentino. Daria Bignardi, per dirne una. Quel genere lì. Quelle persone (sempre probabilmente) che condannano, criticano aspramente, a tratti schifano il personaggio che vive di lusso, vuoto interiore, disperazione cosmica, feste orgiastiche inondate di Crystal e piste di coca inspirate da bigliettoni da 500 euro, grandi discorsi incentrati sul nulla, sequele compulsive e disperate di autoscatti pseudoartistici al cellulare e crocette sui simboli di estrema sinistra all'interno delle cabine elettorali (emblematici in questo caso i ruoli di Isabella Ferrari e Galatea Ranzi). Il problema è che Sorrentino condanna, ma allo stesso tempo sta al gioco, creando un film lezioso, pretenzioso, inutilmente lungo e drammaticamente vuoto (troppo facile giustificarsi con il classico "era proprio quella l'intenzione"). Per riassumere il tutto in un termine, appunto, radical chic.
Parte dell'attrattiva della pellicola è riconducibile sicuramente ai panorami di una Roma fin troppo facile da fotografare (comunque ottimo il lavoro di Luca Bigazzi), ma se da una parte il regista de Il Divo scopre apparentemente l'acqua calda ambientando gran parte delle scene su un attico con vista sul Colosseo o all'interno di alcuni tra i più incantevoli palazzi della Città Eterna (emblematica la visita notturna agli edifici/musei di Servillo e Ferilli), dall'altra, perlomeno, evita di vincere in maniera platealmente facile offrendo inquadrature quasi mai scontate di panorami ormai impressi nella memoria di qualsiasi spettatore grazie all'occhio esperto dei grandi cineasti del tempo che fu. E dirige un gruppo di attori perfettamente in parte e ottimamente amalgamati tra loro (eccezion fatta per un Verdone inesorabilmente intrappolato nei ruoli che lo hanno reso famoso e che cerca, senza riuscirci, di imporsi come figura drammatica in quello che rimane l'unico personaggio forse veramente puro della pellicola).
Toni Servillo è l'ultimo grande attore italiano della nostra epoca. Tempi incredibilmente perfetti, espressività adeguata ai vari stati d'animo che attraversano il personaggio nei 140, lunghissimi, minuti del film. Ironia sagace. Autocritica al vetriolo. Fascino d'altri tempi.
Sabrina Ferilli è Sabrina Ferilli. Non è Anna Magnani, e forse a volte lo dimentica. Ma va premiato il gesto di indossare una tutina trasparente color carne da lei stessa acquistata e che non ha mai avuto il coraggio di vestire nella sua vita. Lo fa su pellicola, consapevole delle reazioni che susciterà.
E poi c'è Serena Grandi, che con appena tre scene monopolizza l'attenzione del film. Perché lei è il film, ed è semplicemente se stessa. Il disfacimento di una bellissima star dei tempi passati data in pasto ai pescecani, agli spacciatori di cocaina e ai chirurghi estetici di dubbia moralità (o semplicemente di dubbio gusto).
Resta comunque il dubbio di aver assistito a un tentativo di condanna e disprezzo di un ambiente e uno stile di vita espresso con lo stesso snobismo e gli stessi controsensi di cui il film è, tristemente, saturo.


martedì 21 maggio 2013

CINEMA
Nodo alla gola - Una riflessione sul teatro su grande schermo e una nota sulla versione italiana

Titolo originale Rope
Paese di produzione USA
Anno 1948
Durata 77 min
Regia Alfred Hitchcock
Sceneggiatura Arthur Laurents
Fotografia Joseph Valentine, William V. Skall
Montaggio William H. Ziegler
Musiche Leo S. Forbstein
Scenografia Perry Ferguson, Emile Kuri, Howard Bristol
Cast James Stewart, John Dall, Farley Granger, Joan Chandler, Douglas Dick, Cedric Hardwicke, Constance Collier, Edith Evanson, Dick Hogan

Caratterizzato da undici piani sequenza montati come se si trattasse di un'unica ripresa, il film, proprio in virtù di questa particolarità, è realizzato in modo da apparire come una pièce teatrale (il soggetto è effettivamente tratto da un'opera di Patrick Hamilton). Ecco come Hitchcock descrive l'idea del film nella splendida intervista concessa a François Truffaut nel libro Il cinema secondo Hitchcock:
"Non so veramente perchè mi sia lasciato trascinare in questo pasticcio di Nodo alla gola; non posso chiamarlo altrimenti. La commedia aveva la stessa durata dell'azione, aveva un andamento continuo, dal momento in cui si alzava il sipario fino a quando era calato e mi sono chiesto: come posso tecnicamente filmare questa storia mantenendo lo stesso andamento della commedia? La risposta era evidentemente che la tecnica del film avrebbe dovutoprodurre la stessa continuità eche non si sarebbe dovuto fare alcuna interruzione all'interno di una storia che incomincia alle 19:30 e termina alle 21:15. Allora mi è venuta questa idea un po' folle di girare un film costituito da una sola inquadratura. Ora, quando ci rifletto, mi rendo conto che era completamente senza senso, perchè rompevo con tutte le mie tradizioni e rinnegavo tutte le mie teorie sulla segmentazione del film e sulle possibilità offerte dal montaggio, per raccontare una storia attraverso le immagini. Tuttavia ho girato questo film montandolo in anticipo; i movimenti della macchina da presa e i movimenti degli attori ricalcavano esattamente il mio modo abituale di scegliere le mie inquadrature per il montaggio, cioè cercavo di mantenere il principio del cambiamento di proporzione delle immagini in rapporto all'importanza emotiva dei vari momenti. Beninteso, ho avuto molte difficoltà per fare questo e non solo con la macchina da presa. Per esempio con la luce: nel film la luce diminuiva continuamente, l'illuminazione cambiava tra le 19:30 e le 21:15, perchè l'azione cominciava quando era ancora giorno e si concludeva di notte. Un'altra difficoltà tecnica da superare consisteva nell'interruzione forzata alla fine di ciascuna bobina:l'ho risolta facendo passare un personaggio davanti all'obbiettivo per oscurarlo proprio nel momento preciso in cui la pellicola del caricatore finiva. Così c'era un primissimo piano sulla giacca di un personaggio e all'inizio della bobina successiva si riprendeva ancora col primissimo piano sulla giacca".

Purtroppo, la versione italiana di questo capolavoro rovina completamente il senso del film. Battute inspiegabilmente cambiate, movente stravolto: nella sceneggiatura inglese i due giovani uccidono il loro amico per puro piacere estetico, nel doppiaggio riconducono la tragedia a una discussione degenerata con esiti drammatici, per nulla in linea con il resto del film e tanto meno con la presenza dei guanti alle mani dei due ragazzi, che implicano necessariamente una premeditazione.

giovedì 16 maggio 2013

LIFE
Complice Luna


La pelle bruciata dai raggi di luna
Nasconde un segreto, un amore rubato
I giunchi mimetizzano due corpi cinerei
Che ad ogni equinozio si incontrano furtivi

Promessi entrambi a un futuro distratto
Si lasciano andare tra lacrime amare
Non possono guardarsi, celato è l'amore
Stupiti di dove li abbia portati il cuore

La luce del giorno non deve trovarli
L'amaro sorriso dovranno indossare
La luna sorride, sa che non è un addio
Attenderà paziente l'equinozio a venire


Claudio Questa

sabato 11 maggio 2013

LIFE
Della psicoterapia, e altri dubbi


Ho visto una puntata di In Treatment, una nuova serie TV italiana diretta da Saverio Costanzo e interpretata da Sergio Castellitto, psicoterapeuta che ospita ogni settimana nel suo studio pazienti di varie tipologie (in breve, l'episodio che ho visto è incentrato sulla figura di Dario, magistralmente interpretato da Guido Caprino, carabiniere sotto copertura coinvolto in una difficile indagine su una pericolosa organizzazione criminale). Oltre a essere rimasto incredibilmente stupito dall'ottima fattura della serie TV, di livello eccelso, soprattutto nel desolante panorama della televisione italiana di oggi, sono andato inevitabilmente con il pensiero alla mia situazione personale.
Sono in terapia da quasi due anni ormai, un universo nebuloso che mi ha letteralmente cambiato la vita. E guardando la puntata in questione, dove Dario confessa al suo terapeuta la paura di essere gay, con tutte le ripercussioni del caso (mito del machismo messo in discussione, identificazione dell'omosessuale come essere debole e frignante, con conseguente timore di non essere in grado di affrontare le traversie della vita), non ho potuto non osservare la partecipazione umana dello psicoterapeuta di fronte al momento di crisi vissuto dal paziente. E mi sono chiesto: quanto c'è di veramente empatico nell'atteggiamento di uno psicoterapeuta? Quanto partecipa effettivamente al dolore del suo paziente? Quanto la scelta del suo lavoro è stata influenzata dalla necessità o dalla voglia di aiutare le persone? E quanto l'identificazione della psicoterapia come servizio che prevede un compenso di natura economica (laddove privata) ci permette effettivamente di interpretare la professione come un bene di cui ci forniamo, proprio come se andassimo a un supermercato o in un centro commerciale?
Mi piace pensare allo psicoterapeuta come a una persona pagata per condividere le sue conoscenze didattiche, apprese dopo anni e anni di studio intenso, ma che nella sua professione investe una notevole percentuale di umanità ed empatia verso l'altro. Una missione, più che un lavoro, come quella di un medico.
Mi piace pensare allo psicoterapeuta come a una persona in grado di aiutarmi umanamente a capire i miei limiti e a fornirmi gli strumenti per accettarli, laddove sia impossibile superarli.
Mi piace pensare di sedermi di fronte a una persona che offre il suo servizio ponendosi come primo obiettivo quello di aiutarmi a migliorare la mia vita, e non quello di gonfiarsi il portafogli.

MUSICA
L'ultima eclisse


In effetti sembra notte fonda
l'ennesima eclisse tra un dolore e un altro
quaggiù all'inferno s'invecchia l'aria è più accesa
quaggiù all'inferno si cambia più spesso rotta
nessuna beata certezza né l'ombra
di commovente pietà...
non pensare che sia distante non pensare
non pensare che sia distante non pensare
non pensare che sia distante
da qui vedo la tua casa
In effetti tra un girone e un altro
cercavo i tuoi occhi blu di metilene
quaggiù all'inferno perpetua
croce e delizia
quaggiù all'inferno si sconta
l'aspra e inflessibile sentenza
tra gli inferi il dubbio serpeggia
nessuna beata certezza né l'ombra
di commovente pietà...
non pensare che sia distante non pensare
non pensare che sia distante non pensare
non pensare che sia distante
da qui vedo la tua casa

venerdì 10 maggio 2013

MUSICA
Paradise (not for me)



Fonte: alhexanderv on Tumblr

LIFE
Un momento


Non è un momento negativo, è solo un momento di grande cambiamento.
Un momento in cui a volte ho difficoltà a riconoscermi allo specchio.
Un momento in cui non ho voglia di socializzare con tutti, o meglio con chiunque.
Un momento in cui ho bisogno di cambiare modalità di comunicazione e, all'occorrenza, il destinatario.
Un momento in cui i rami potati sono più di quelli ancora attaccati all'albero, ma se sono secchi è giusto lasciare il posto a quelli che devono ancora nascere.
Un momento in cui realizzo che posso davvero scegliere chi portare in viaggio con me.
Un momento in cui non sento troppo la mancanza di qualcuno accanto, e la cosa mi fa un po' paura.
Un momento che posso, devo e voglio dedicare completamente a me stesso.

mercoledì 8 maggio 2013

LIFE
Quanto costa una rosa?


La domanda rompe il silenzio di questa piacevolissima serata, che mi accompagna lungo il tragitto da casa dei miei a casa mia, a piedi, con Penny al guinzaglio e un libro nell'altra mano. Sì, perché io, nei lunghi tragitti a piedi, leggo, in città come in montagna. Ho persino imparato a scorgere gradini, marciapiedi ed escrementi con la coda dell'occhio, per non inciampare o, come nell'ultimo caso, per non finirci sopra. E nel silenzio del quartiere, il giovane in motorino accosta e si avvicina al fioraio ancora aperto (a proposito, perché i fiorai sono sempre aperti, di notte?).
Ho interrotto la lettura. Ho pensato a quel piccolo gesto, magari neppure programmato, ma affacciatosi nella mente del ragazzo, forse sovrappensiero, alla vista del chiosco. Ho pensato alla sorpresa negli occhi della sua ragazza (o del suo ragazzo?), uno sguardo carico di amore, ho pensato a un abbraccio sul pianerottolo o davanti al cancello di casa.
E ho pensato a quanto ci vuole poco, davvero, per stare bene.

martedì 22 gennaio 2013

DVD
I cult movie di Ciak

Piera Detassis e Claudio Masenza soddisfano i palati dei cinefili più appassionati pubblicando per la prima volta alcuni capolavori del cinema internazionale ancora inediti in DVD.

Prima uscita, 28 dicembre
Un anno vissuto pericolosamente
Titolo originale: The Year of Living Dangerously
Anno: 1982
Regia: Peter Weir
Protagonisti: Sigourney Weaver, Linda Hunt, Mel Gibson, Michael Murphy, Bill Kerr
Nel 1965 giornalista australiano arriva a Giakarta (Indonesia) nei giorni del colpo di Stato anticomunista e ha una storia d'amore con un'impiegata dell'ambasciata britannica di cui è paraninfo un fotoreporter di sangue misto. Curiosa mistura di avventure esotiche e dramma politico. Le convenzioni hollywoodiane vi convivono con un sincero interesse per i problemi del Terzo Mondo asiatico. La piccola Linda Hunt, in un ruolo maschile, vinse l'Oscar come attrice non protagonista.

Seconda uscita, 4 gennaio
Il postino suona sempre due volte
Titolo originale: The Postman Always Rings Twice
Anno: 1981
Regia: Bob Rafelson
Protagonisti: Jessica Lange, Jack Nicholson, John Colicos, Anjelica Huston, Michael Lerner

4ª trasposizione del romanzo (1934) di James Cain, la 1ª che mette in immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul "sogno americano", la sua trasformazione in incubo, descrivendone, col contributo notevole della fotografia di Sven Nykvist, il contesto sociopolitico. Più che J. Nicholson, un po' troppo vecchio per la parte e talvolta sopra le righe, è ammirevole J. Lange, migliore delle 3 attrici che l'hanno preceduta: Corinne Luchaire, Clara Calamai e Lana Turner.

Terza uscita, 11 gennaio
I diavoli
Titolo originale: The Devils
Anno: 1970
Regia: Ken Russell
Protagonisti: Oliver Reed, Max Adrian, Vanessa Redgrave, Dudley Sutton, Gemma Jones

Dalla pièce teatrale di John Whiting ispirata al libro (1952) I diavoli di Loudun di Aldous Huxley: nella Francia del 1634 sotto il cardinale Richelieu, Urban Grandier, prete illuminato e peccatore, e Suor Giovanna degli Angeli, madre superiora di un convento delle Orsoline a Loudun, sono al centro di un processo per stregoneria che si conclude con la condanna del primo al rogo. Se non si considera il taglio politico (alleanza tra Stato e Chiesa, intolleranza ideologica come strumento di dominio, ricorso all'erotismo come valvola di scarico delle tensioni antistituzionali), si travisa il film, riducendolo a uno strepitoso e ripugnante luna park fantastorico di sesso, orrori e violenze. Non è il migliore di Russell, ma al suo confronto 9 film storici su 10 sono ridicole castagne secche. Censurato, vietatissimo, scandaloso.

Quarta uscita, 18 gennaio
Fragole e sangue
Titolo originale: The Strawberry Statement
Anno: 1970
Regia: Stuart Hagman
Protagonisti: James Coco, Bruce Davison, Bud Cort, Bert Ramsen

L'amore spinge un giovane scettico e apolitico a impegnarsi attivamente nelle lotte studentesche alla Columbia University. Tratto da un romanzo di James Simon Kunen e sceneggiato da Israel Horowitz (che interpreta la parte del dottor Benton) è un film M-G-M sulla rivolta studentesca che ha il torto di voler giocare su troppi tavoli: commedia, dramma sociale, musical. Uno dei rari film sessantottini prodotti da una major di Hollywood sull'onda del successo di Easy Rider.



Si prosegue con:
25 gennaio: CRUISING
1 febbraio: CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF?
8 febbraio: MA PAPA’ TI MANDA SOLA?
15 febbraio: I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE


Fonte delle trame e dei dettagli tecnici dei singoli film: My Movies
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lunedì 21 gennaio 2013

LIFE
Discorso di inaugurazione - Barack Obama Presidente degli Stati Uniti, 2013

Responsabilità
Impegno
Unione
Rispetto
Coscienza
Speranza
Futuro

Poco attuabili, ma pur sempre parole che scaldano il cuore.

sabato 19 gennaio 2013

CINEMA
"Carrie", il remake

Iniziano a girare in rete le prime immagini promozionali di quello che, in un'epoca cinematografica contrassegnata da una moltitudine di riedizioni di vecchi film di grande successo, si preannuncia come uno dei remake più ambiziosi e rischiosi degli ultimi tempi. Kimberly Pierce, regista statunitense particolarmente incline a raccontare storie femminili di grande impatto come Boys don't cry e dietro la macchina da presa in un episodio dell'acclamata serie TV The L Word, rispolvera la pellicola cult di Brian De Palma e dà nuova vita al personaggio di Carrie White, l'adolescente problematica dotata di poteri telecinetici e affiancata da una madre troppo ingombrante e assoluta fanatica religiosa, nata dalla penna di Stephen King.
Del film si sa poco, se non che il ruolo principale verrà interpretato da Chloë Grace Moretz, già vista in Hugo Cabret e Dark Shadows, ma la vera punta di diamante è Julianne Moore, che vestirà i panni (virginali) di Margaret White nel tentativo di far dimenticare, o almeno non far rimpiangere, l'immensa interpretazione di Piper Laurie nell'originale del 1976. Ci riuscirà? Senza dubbio, la foto promozionale promette bene...
Sito ufficiale
Trailer originale della pellicola del 1976

giovedì 10 gennaio 2013

CINEMA
La migliore offerta

Titolo originale La migliore offerta
Paese di produzione Italia
Anno 2013
Durata 124 min
Regia Giuseppe Tornatore
Sceneggiatura Giuseppe Tornatore
Fotografia Fabio Zamarion
Montaggio Massimo Quaglia
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Maurizio Sabatini
Costumi Maurizio Millenotti
Cast Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson, Dermot Crowley, Kiruna Stamell, Liya Kebede

La vita di Virgil Oldman, richiestissimo battitore d'aste ossessionato da ritratti di figure femminili di cui riesce a impossessarsi grazie all'aiuto del fidatissimo Billy, trascorre senza il minimo intoppo, scandita dalle sue nevrosi, dalla cura maniacale che riversa sul lavoro, da un ordine e una disciplina che gli impediscono perfino di accettare una torta di compleanno offertagli da un ristorante di lusso nel giorno sbagliato. L'ingranaggio inizia a incepparsi quando riceve una misteriosa telefonata da Claire Ibetson, giovane orfana ereditiera di un'immensa villa in decadimento che gli propone di battere all'asta gli innumerevoli beni della sua casa. La ragazza, che soffre di una forma acuta di agorafobia, impone come unico limite che i colloqui tra i due avvengano all'interno della villa, separati da una parete, in modo che non possano mai vedersi faccia a faccia. Il carattere poco paziente, ma estremamente curioso, di Virgil è morbosamente attratto e al contempo indispettito dal comportamento ambiguo della ragazza. Quando nella dimora rinviene tra i numerosi cimeli i vari ingranaggi che scopriremo essere piccoli elementi costituenti un antico automa, il protagonista si rivolge a Robert, giovane restauratore che lo aiuterà nel riassemblaggio della struttura e nella gestione del difficile rapporto con la ragazza. Inconsapevolmente, Virgil imboccherà un sentiero a lui completamente sconosciuto, che segnerà la sua vita in modo definitivo.

4 anni dopo il successo di Baarìa, Giuseppe Tornatore torna dietro la macchina da presa nel suo secondo approccio al thriller dopo il riuscitissimo Una pura formalità (1994), interpretato da Gérard Depardieu e Roman Polanski, e anche in questo caso si occupa di soggetto e sceneggiatura, dando vita a un piccolo gioiello dal gusto di altri tempi, con uno stile volutamente riflessivo, sobrio ed elegante, in cui ogni singolo "ingranaggio" (mai termine fu più appropriato come in questo film) funziona alla perfezione. Il talento di Tornatore risiede nella sua capacità di instillare un senso continuo di inquietudine e sprazzi di tensione (supportati dall'avvolgente colonna sonora di Ennio Morricone) mostrando poco o nulla. Rinuncia agli espedienti più semplici del genere: niente cadaveri, niente sangue, niente assassini. Solo un'atmosfera inspiegabilmente (almeno fino agli ultimi dieci minuti della pellicola) malsana. E il gioco funziona anche e soprattutto laddove ci si aspetta un momento di vera paura e terrore che non arriverà mai.
Impeccabile l'aspetto tecnico del film, caratterizzato dalla sobria fotografia di Fabio Zamarion e dalle raffinate scenografie di Maurizio Sabatini. Il cast di prim'ordine vede spiccare un immenso Geoffrey Rush, perfettamente a suo agio nel riprodurre le psicosi e le manie di un uomo votato alla perfezione, e l'ottima spalla del battitore d'asta interpretata da Donald Sutherland. Particolarmente incisive anche le figure dei due giovani, Sylvia Hoeks (Claire) e Jim Sturgess (Robert), che si contrappongono ai due anziani in un meccanismo di distacco generazionale che, seppur apparentemente improbabile, convince in tutto e per tutto. Da non perdere.

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